Militari italiani all’estero: Il caso dei Fucilieri del Battaglione “San Marco”. Dal 16 febbraio 2012 i due militari italiani si trovano ancora in India; le principali questioni giuridiche da risolvere riguardano due profili: quello della giurisdizione competente a decidere e quello del possibile riconoscimento dell’immunità funzionale ai due Marò italiani.
del dott. Enrico Buttitta
E’ passato quasi un anno e mezzo dal giorno in cui il Capo di 1^ classe Massimiliano Latorre ed il Serg. Magg. Salvatore Girone, Fucilieri del Battaglione “S. Marco” imbarcati col Nucleo di Protezione Militare (NPM) sulla petroliera “Enrica Lexie”, sono intervenuti (erano le ore 12.30 indiane del 15 febbraio 2012) per sventare un apparente “ennesimo tentativo di abbordaggio” da parte di cinque “predoni del mare” a bordo del peschereccio St. Antony al largo della costa meridionale indiana del Kerala. In tali circostanze hanno perso la vita due pescatori di nazionalità indiana che si trovavano a bordo del St. Antony, colpiti da una raffica di colpi di arma da fuoco che, secondo le autorità indiane, sarebbero partiti dalla petroliera italiana.
A prescindere da ogni possibile ipotesi sui tempi e sui modi in cui troverà conclusione la vicenda che vede coinvolti i due Marò del Battaglione “San Marco”, ci lascia perplessi il fatto che dall’ormai lontano 16 febbraio 2012 i militari italiani si trovino ancora in India in condizioni restrittive della libertà personale, per un fatto che, secondo la legge penale italiana, appare integrare gli estremi materiali e psicologici di un eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi da parte di militari e pubblici ufficiali, punibile (anche nell’ipotesi di condanna) con pena che non giustificherebbe una restrizione della libertà per un tempo così lungo.
Per quanto riguarda la competenza giurisdizionale, le autorità politiche, investigative e giudiziarie dello Stato del Kerala hanno subito affermato la propria esclusiva giurisdizione e competenza territoriale, negando al contempo che i due fucilieri godessero dell’immunità funzionale.
Dall’altro lato, al contrario, le autorità italiane sin dall’inizio della crisi hanno nettamente affermato la giurisdizione esclusiva della Repubblica Italiana, sia in considerazione dell’art. 97 della Convenzione di Montego Bay, sia tenuto conto dell’immunità funzionale dei due militari. La Convenzione di Montego Bay all’art. 97, nello stabilire la giurisdizione esclusiva dello Stato di bandiera, afferma che “in caso di abbordo o di qualunque altro incidente di navigazione nell’alto mare, che implichi la responsabilità penale o disciplinare del comandante della nave ovvero di qualunque altro membro dell’equipaggio, non possono essere intraprese azioni penali o disciplinari contro tali persone, se non da parte delle autorità giurisdizionali o amministrative dello Stato di bandiera o dello Stato di cui tali persone hanno la cittadinanza”.
Conseguentemente da parte italiana, in coerenza con le regole del diritto internazionale consuetudinario e con quanto previsto dalla Convenzione di Montego Bay, è iniziata una trattativa con il governo centrale di Delhi. Su un altro versante, la Procura della Repubblica di Roma ha aperto un procedimento per il delitto di omicidio volontario, formulando alle autorità indiane competenti delle specifiche richieste di assistenza giudiziaria, per via di rogatoria internazionale. Inoltre la Procura Militare della Repubblica di Roma ha aperto un ulteriore procedimento a carico dei due Marò per il reato di violata consegna, ipotizzando da parte degli stessi il mancato rispetto delle c.d. “regole di ingaggio” previste per questa specifica missione internazionale.
Ricordo al riguardo che le regole di ingaggio sono direttive impartite dai comandi delle Forze Armate per definire, tra l’altro, la circostanza, il grado e le condizioni in cui può farsi uso della forza. Esse, in concreto, costituiscono l’unico strumento per autorizzare l’uso della forza in tempo di pace e in situazioni di crisi.
Oggetto di contestazione è in particolare la posizione dei vascelli al momento del tragico evento, circostanza di fondamentale rilevanza per stabilire la giurisdizione competente. Infatti, secondo una prima ricostruzione degli investigatori italiani, la Nave “Enrica Lexie” si sarebbe trovata a 33 miglia nautiche dalla costa sudovest dell’India, mentre -secondo la Corte Suprema indiana- i natanti si sarebbero trovati a 20.5 miglia nautiche dalla costa. Di conseguenza, nel primo caso il fatto sarebbe avvenuto in acque internazionali, mentre nel secondo nello spazio di mare denominato “zona contigua”, con rilevanti ripercussioni in tema di sovranità dello stato rivierasco. Invero, per i fatti accaduti in acque internazionali, lo Stato della bandiera della nave è il solo legittimato ad esercitare poteri coercitivi nei confronti delle navi iscritte nei propri registri.
Di conseguenza, per le autorità italiane, le corti indiane non sarebbero competenti a giudicare i due Marò secondo il diritto internazionale. La sentenza del gennaio 2013 della Corte Suprema Indiana, intervenuta successivamente alla sentenza del maggio 2012 del Tribunale dello Stato del Kerala, ha tuttavia escluso l’applicabilità dell’art. 97 della Convenzione di Montego Bay, non ritenendo che l’esplosione di colpi di armi da fuoco da un vascello verso un altro, e la conseguente morte di due persone, possano costituire un “incidente di navigazione” ai sensi della Convenzione stessa. Quindi, secondo i magistrati indiani, l’art 97 mira a regolamentare soltanto casi di collisione tra vascelli o ogni altro tipo di “incidente” occorso durante la navigazione, con la conseguenza che le regole per individuare la giurisdizione competente devono essere tratte dal diritto internazionale generale.
E’ anche vero, d’altro canto, che le vittime erano di nazionalità indiana e che gli accusati della loro morte si trovano in territorio indiano, per cui l’India potrebbe rivendicare la giurisdizione anche in ragione di tali criteri.
La sentenza della Corte Suprema di Delhi tuttavia non sembra fare ricorso a tali argomenti per ritenere la giurisdizione indiana. Piuttosto, nella sentenza del gennaio 2013 la Corte Suprema indiana conclude ritenendo che, essendo il fatto di sangue avvenuto nella zona contigua, cioè nella zona compresa tra il limite delle acque territoriali e le acque internazionali, tra i diritti esercitabili dall’Unione indiana rientrerebbe anche quello di perseguire i presunti responsabili della morte dei due pescatori sulla base del diritto penale nazionale. A tal fine la Corte ha disposto la formazione di un Tribunale Speciale, che sarà competente a decidere sia su eventuali questioni di giurisdizione, sia sul merito della vicenda.
La Corte indiana non si esprime chiaramente sulla competenza concorrente della giurisdizione italiana, pur non escludendola. Anche l’eventuale decisione sul punto è rimessa al previsto e nominato Tribunale Speciale.
Infine, va notato che la Corte nulla dice sulla qualificazione giuridica del fatto contestato e sull’imputazione da cui Latorre e Girone saranno chiamati a difendersi, sicché è da ritenere che i reati che saranno contestati ai due fucilieri di Marina saranno quelli sanzionati dal codice penale indiano agli artt. 34 (responsabilità a titolo di concorso) e 302 (omicidio), 307 (tentato omicidio), 427 (azioni che hanno comportato danni).
L’argomento più solido a favore della giurisdizione esclusiva italiana è basato invece sul riconoscimento in capo ai due Marò dell’immunità funzionale, che spetta agli individui che possono essere considerati organi dello Stato in quanto svolgenti pubbliche funzioni. I giudici indiani del Tribunale del Kerala hanno negato che i due Marò fossero a bordo della Enrica Lexie nell’esercizio di pubbliche funzioni. Differentemente, la Corte Suprema di Delhi ha riconosciuto agli stessi la qualità di organi dello Stato e ribadito che il “Team Latorre”, composto da 6 fucilieri di Marina, si trovava sulla petroliera dal 6 febbraio 2012 su preciso ordine dei comandi militari italiani.
Ricordo che la legge italiana riconosce ai nostri militari le funzioni di ufficiali e di agenti di polizia giudiziaria in relazione ai reati di pirateria ed a quelli connessi, previsti agli articoli 1135 e 1136 del codice della navigazione. Risulta indubbio, pertanto, che i due fucilieri di Marina si trovavano a bordo della petroliera nella veste di organi dello stato italiano, in missione antipirateria nell’ambito di attività svolta sotto l’egida delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
Ai nostri militari, nel caso specifico, in mancanza di specifici accordi internazionali tra lo Stato italiano e quello indiano, sono ovviamente applicabili le coperture normative previste dalla legislazione interna. Sarà quindi applicabile, oltre alla richiamata norma di cui all’art. 53 C.p. (uso legittimo delle armi), la speciale causa di giustificazione prevista in favore dei militari impegnati in missioni all’estero, di cui all’articolo 4 del decreto- legge 4 novembre 2009 n. 152, convertito con modificazioni dalla legge 29 dicembre 2009, n. 197. Tale norma stabilisce che “non è punibile il militare che, nel corso delle missioni di cui all’articolo 2, in conformità alle direttive, alle regole di ingaggio, ovvero agli ordini legittimamente impartiti, fa uso ovvero ordina di fare uso delle armi, della forza o di altro mezzo di coazione fisica, per le necessità delle operazioni militari”.
Inoltre, nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, si indica espressamente agli Stati la necessità di collaborare e la possibilità di perseguire i pirati “con tutti i mezzi necessari”. In tale contesto normativo, che riconosce il principio generale di legittima difesa proclamato dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, atteso che il diritto di catturare pirati può essere considerato come una misura di autodifesa dello Stato, emerge chiaramente la legittimità internazionale dell’impiego dei militari italiani.
Non si rinvengono quindi argomenti per non riconoscere loro l’immunità funzionale o ratione materiae, che, in ragione del diritto internazionale consuetudinario, spetta a tutti gli individui-organi dello Stato, i quali non possono essere sottoposti alla giurisdizione dei tribunali stranieri in relazione alle attività svolte in esecuzione delle funzioni loro affidate.
Altre considerazioni riguardano i rapporti tra il comandante della nave e i nuclei militari di protezione e la possibile irrogazione della pena di morte ai due militari italiani in caso di condanna da parte del Tribunale speciale indiano. Sul primo punto, in base alla legge 2 agosto 2011, n. 130, gli armatori possono imbarcare, previa richiesta e con oneri a loro carico, nuclei militari di protezione (NMP) della Marina, a tutela delle navi battenti bandiera italiana in transito in acque internazionali a rischio di pirateria, che sono state individuate con decreto del Ministro della difesa del settembre 2011. A tale scopo, è stato siglato il protocollo di intesa tra il Ministero della Difesa e la Confederazione italiana armatori (Confitarma), al fine di facilitare l’individuazione delle modalità più opportune per l’esercizio delle attività di protezione.
Negli episodi relativi alla nave “Enrica Lexie”, si è anche posta una riflessione su chi, a prescindere da quanto sia avvenuto nella realtà dei fatti e dalle motivazioni che hanno condotto l’imbarcazione a dirigersi verso le acque territoriali indiane, avesse la potestà di decidere i movimenti della nave. La norma richiamata all’articolo 5 del decreto-legge n. 107 del 2011 infatti, pur chiarendo la finalità di protezione del naviglio mercantile da atti di pirateria armata, non offre risposte precise in caso di contrasto tra ordini impartiti dal comandante della nave (e dall’armatore) da una parte e dal comandante del nucleo militare di protezione dall’altra.
In merito alla possibile irrogazione della pena di morte ai due militari italiani in caso di condanna, le cronache hanno ampiamente trattato delle vicende scaturite dalla concessione da parte delle autorità indiane di due permessi di rientro temporaneo in Italia ai Marò ed alla crisi politica e diplomatica sorta in relazione all’ipotesi italiana (poi rientrata) di non far tornare in India i due militari. Anche di fronte all’affidavit dell’ambasciatore italiano di fronte alla Corte indiana, è certo che i due militari, una volta in Italia, avrebbero potuto legittimamente rifiutarsi di tornare in India per affrontare un processo dove, stando alle imputazioni contestate, rischiano la pena di morte. Inoltre, la Corte d’Appello Italiana e il governo italiano non avrebbero potuto accogliere una formale richiesta da parte indiana ed estradare i due Marò imputati, senza violare la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (art. 2) e gli articoli 26 e 27 della nostra Costituzione, dai quali la Corte Costituzionale ha ricavato il divieto assoluto di estradare il cittadino italiano all’estero, nel caso in cui la legislazione del Paese richiedente preveda la pena di morte. Tale divieto persiste anche nel caso in cui lo Stato richiedente abbia fornito garanzie formali di non irrogare la pena capitale o di non eseguirla in caso di condanna. Infatti, la Corte Costituzionale ha nettamente affermato che “nel nostro ordinamento, in cui il divieto della pena di morte è sancito dalla Costituzione, la formula delle “sufficienti assicurazioni” – ai fini della concessione dell’estradizione per fatti in ordine ai quali è stabilita la pena capitale dalla legge dello Stato estero – non è costituzionalmente ammissibile. Perché il divieto contenuto nell’art. 27, quarto comma, della Costituzione, e i valori ad esso sottostanti – primo fra tutti il bene essenziale della vita – impongono una garanzia assoluta.”
Concludo, con l’augurio che le questioni politiche e giuridiche sul tappeto, i conflitti di giurisdizione e di interpretazione delle norme di diritto internazionale, la complessità delle questioni diplomatiche cui stiamo assistendo, non impediscano una rapida risoluzione della vicenda, che appare molto dolorosa non solo per la tragica fine di due pescatori, ma anche per la privazione della libertà da troppo tempo subita dai nostri militari.
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