Questa fotografia, come tutti gli altri lavori, è pubblicata, sotto forma di slideshow, che invitiamo i lettori a visitare. Questa che vi presento qui, in particolare è una delle mie foto più care, forse quella a cui tengo di più. Il titolo è “Il Cavallo di Samarcanda”.
a cura di Diego Cordioli
La fotografia fa parte di un lavoro più ampio, una rilettura della famosa leggenda su cui il grande Roberto Vecchioni ha scritto, appunto, la celebre canzone “Samarcanda”.
Quello che vi propongo qui è un esperimento: osservate la fotografia, analizzatela, cercate di entrare nella sua atmosfera, fate in modo d’intendere ciò che dice, e solo in seguito leggete questa interpretazione autentica, che provo a dare. Il nostro primo livello percettivo dell’immagine è un livello razionale formale: cosa vedo?
Un cavallo bianco con gli occhi chiusi, con la testa reclinata in avanti. Ha un elegante e principesco paramento di fattura orientale, e dei dettagli, come le vene e il manto, che lo rendono, in termini di distanza, vicino all’osservatore. E’una vicinanza fisica, intima. Sembra si possa quasi accarezzare. Il dettaglio degli occhi mi fa pensare che il fotografo abbia voluto portarmi a “intercettare” qualcosa dell’anima di questo cavallo, per così dire.Gli occhi però sono chiusi, forse perché la sua “anima” è rivolta, in quell’attimo, verso l’introspezione.
Il secondo, e più profondo livello di lettura, che ci porterà ad accostarci o meno, a livello emozionale, a questa immagine, è quello inconscio. Iniziamo questo percorso, che è l’unico che può portare all’emozione, precisando che è solo capendo i contenuti di un’immagine che ce ne innamoriamo. Se non la leggiamo profondamente, con i mezzi dell’inconscio, e se quindi non rileggiamo noi stessi alla luce di quella esperienza, non possiamo provare alcuna vera emozione. La dimenticheremo come se non l’avessimo mai vista. Mentre sul dato formale, però, siamo tutti d’accordo, la percezione profonda di ciascuno di noi diverge da quella degli altri. Anche se, ed è su questo che mi baso, alcuni contenuti espressivi, in arte, richiamano una parte direi “assoluta” dell’inconscio, o comunque una parte che ha a che fare con l’inconscio collettivo e con l’archetipo.
Un cavallo bianco, simbolo di purezza, nobiltà ed istintualità, in arte è soggetto comune. Ne abbiamo visti centinaia, in Paolo Uccello, in Piero della Francesca, in De Chirico, ma anche in Sironi, nelle fontane e nelle statue equestri di tutto il mondo. Bianco è il cavallo in Guernica di Picasso, bianco è il cavallo in rovinosa caduta di Vronskij nell’ultimo film “Anna Karenina”, poi abbattuto, ma anche nelle fiabe, certo.
Come non richiamare alla memoria quella scena in “La Storia infinita” , tra le sabbie mobili? Ma chi prima d’ora l’aveva raffigurato così? Ho voluto cogliere un istante drammatico, quello in cui sta per accadere qualcosa. Ma cosa?
La fotografia non ci dice più di questo. Però, se c’è un cavallo, ci deve essere anche un cavaliere. Ed ecco che il destriero, nel gesto di chiudere gli occhi, diventa il correlativo oggettivo del suo condottiero. Riassume in potenza tutto quello che l’atto immediatamente successivo implica e comporterà. Ecco che, con una obbedienza cieca, e uno spirito di sacrificio proprio dei grandi caratteri, l’animale sembra comprendere, confermare la propria missione e accettare il proprio destino. Correlativo oggettivo, sì, perché il cavaliere, in sincrono, a sua volta accetta e sceglie
il proprio. Qualcosa di terribile sta per accadere, e qualcosa di epico è già in scena, mentre tramite il solo cenno di risposta dell’animale, intelligente e sensibile, viene riassunto il pathos del momento.
Allora questa fotografia ha a che fare con l’affrontare il destino? Si. Pur essendo il “mio” meraviglioso cavallo bianco, è anche il cavallo di ognuno di noi, nel momento in cui, al comando, chiude gli occhi e obbedisce a chi, in nome di un valore più alto, lo sta per lanciare in battaglia. Perché è lì il destino dei due, cavallo e cavaliere, uniti: nella battaglia. Nella battaglia, o meglio, se lo lasciamo incastonato nella leggenda di Samarcanda, nel fatale incontro con la Nera Signora.In che modo questo ci riguarda, allora?
Siamo oltre la lettura del dato formale, siamo passati attraverso una serie di riferimenti culturali, pittorici e cinematografici che richiamano purezza, istinto, affiatamento, obbedienza e dolore. Abbiamo visto attorno a noi centinaia di cavalieri cadere in battaglia, e altri cavalcare all’infinito, in formazione o solitari, tutti sfidando la morte, in cerca dell’affermazione di un valore per cui hanno vissuto. Non mi dispiace dirlo. La fotografia è un’arte che ritrae cose morte, sempre. Ma ha il compito di richiamare l’animo dell’osservatore a se stesso, di evocare quanto di tutto questo lo riguarda. Come non potrebbe, l’arte, essere elevazione?
Tu, osservatore, sarai tu all’altezza, nel momento in cui sarai chiamato alla battaglia, di lanciarti con il tuo cavallo nella mischia, e di guardare il destino negli occhi, e di affrontarlo da pari a pari, in nome di ciò in cui credi? Se sì, quel giorno il tuo cavallo obbedirà con quel medesimo gesto. E resterete immortali.
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