E’ sempre molto difficile parlare d’arte, ancora più difficile definirla. Per l’uomo comune l’arte viene associata al bello, all’estetica che comunque è anch’essa di difficile definizione.
Si dice spesso che “non è bello ciò che è bello, ma è bello ciò che piace”. E qui ancora cresce la difficoltà descrittiva perché l’individualità non può essere inquadrata nel gusto della collettività.
Mi chiedo spesso, inoltre, da dove venga la cultura della bellezza, se sia un lascito delle precedenti generazioni e se la cultura in genere, intesa anche come conoscenza, possa fornire strumenti che permettano di capire l’espressione artistica.
Recentemente sono stato ad Efeso, città dell’Asia minore ricca di cultura e di arte. L’atmosfera che si respira è impregnata della vita quotidiana del passato. Sembra di scorgere le persone aggirarsi per le strade si vedono le tuniche bianche e rosse svolazzare per radunarsi e poi allontanarsi dell’indaffarato mondo che la vita anima. Ma il contatto con quelle cose, con quelle colonne scanalate ricche di luce e ombra, dei timpani, dei templi ricchi di forme, di marmi in pose scultoree, forse a volte troppo celebrative, doveva suggerire un pathos, un valore ambientale e culturale che accomunava tutti in un’unica idea di bellezza. Noi la chiamiamo a posteriori, bellezza classica.
Un’arte raffinata, nata per comunicare alle masse, per rendere tutti partecipi di un mondo pieno di equilibri, ricco di forme armoniose con dentro la gioia dell’esistenza. Ecco che alla fine, anche attraverso un piccolo salto nel passato, ci rendiamo conto che l’arte è comunicazione, è parola, immagine.
L’arte parla non solo di se stessa, di ciò che rappresenta, ma trasmette l’anima delle cose, penetra i sentimenti, fruga nelle pieghe dell’intelletto dell’uomo alla ricerca continua di nuove verità e nuovi valori. Usa strumenti diversi. A volte è dispotica e aggressiva, a volte timida, malinconica, triste, gioiosa, colorata, esplosiva. È tutti noi. Ci accomuna e ci fa scoprire la nostra essenza.
E in tema di arte e ambiente non si può non parlare di una città emblematica, fuori dagli schemi, come la mitica New York, che io associo sempre alla Babele biblica, alla follia umana di raggiungere i cieli, punita con la confusione delle lingue e degli intelletti.
Una breve vacanza mi ha permesso di andare alla ricerca della comprensione del mito. Guardavo in continuazione il panorama circostante dal 36°piano della torre “Setai”, ora rinominata Langham Place, di fronte all’Empire State Building. A volte, di mattina, appariva avvolta da una nuvola biancastra in lenta dissolvenza. Di notte assomigliava ad una tappezzeria sospesa nel vuoto, piena di luci, con geometrie che si ripetono sfolgoranti all’infinito. Il mattino scendevo in strada a guardare i volti anonimi e indaffarati che vivono in quella realtà straripante.
La mia curiosità mi ha spinto ad indagare quei volti negli spazi d’incontro, nei musei, nelle realtà culturali sparse ovunque nella metropoli. Cosa spinge le persone a visitare gallerie d’arte, musei, librerie? Tanti, tantissimi sono i turisti, altri, sono persone comuni. Ci si perde in questi spazi. Le persone sono alla ricerca di qualcosa, di un suggerimento, di un’indicazione che dia valore e consistenza alla vita.
L’arte può ancora dare delle risposte. Parte dal passato, che nonostante il termine, non significa “dimenticato” ma attraverso segni e colori sa ancora trasmettere sostanziosi messaggi di artisti delle varie scuole. Rinascimento, impressionismo, futurismo, pop art e tutte le correnti culturali si ripropongono, attualissime, nelle sale del Metropolitan, del M.O.M.A., del Guggenheim.
È una scorpacciata d’arte, di lingue, di estetiche e di momenti culturali che congestionano la mente e lo spirito.
In seguito, per smaltire gli effetti di questa sbornia culturale, ci si tuffa nel trambusto delle superaffollate strade di questa grande maglia ortogonale, che divide e disegna la città.
Sullo sfondo, la sagoma nuova e vincente, della nuova Freedom Tower, che ci fa ricordare l’icona scomparsa delle Twin Towers.
La sala più affollata del museo è quella dedicata alle opere di Van Gogh: la gente si accalca ad ammirare quelle pennellate leggibili, la pasta densa e compatta del colore, con un giallo brillante che descrive le tinte della campagna di Arles o le forme esaltanti dei girasoli straripanti da un vaso di ceramica.
Che cosa comunica di diverso questo artista rispetto a tutti gli altri capolavori sparsi nelle sale? Cosa ci fanno quei corvi svolazzanti nelle sue tele, quasi parentesi nere librate nei campi di frumento?
In quelle tele si respira lo spirito dell’artista, un’umanità che ci accomuna nella sofferenza ma che continua nella ricerca della luce ad indicare all’uomo nuove mete, nuove immagini che stanno oltre la linea di orizzonte. Affascina il senso di infinito e della sua ricerca, al di là della quotidianità, della propria interiorità che è anche speranza per il futuro.
dell’arch. Lucio Merlini
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