Sono passati 40 anni dal discutibile suicidio di Roberto Calvi sotto il ponte dei Frati Neri a Londra. Ricostruire oggi la vita e gli ultimi giorni di questo banchiere é persino ripetitivo e inutile: film, libri, commissioni parlamentari, trasmissioni televisive, sentenze di tribunali e saggi ne hanno parlato e riparlato in più occasioni. Milanese, classe 1920, cresciuto all’ombra di politici e monsignori, avrà una carriera folgorante all’interno del Banco Ambrosiano. Assunto come impiegato nel 1947, finirà direttore generale nel 1971, vicepresidente nel 1974 e presidente nel 1975.
Non é, però, qui, più opportuno parlare di cosa rimane dell’eredità di questo pezzo grosso nella finanza e finito in affari (secondo, ormai, tutte le ricostruzioni) con criminalità organizzata, terrorismo internazionale, politica e oltre-Tevere? Cosa ha imparato, cioè, il nostro paese dalla strana fine dell’ex presidente del Banco Ambrosiano?
La risposta è presto detta: nulla. Carrierismo senza scrupoli e lotta a fregare il prossimo (più debole) sono diventati la norma in molti ambiti. Scandali nazionali e internazionali si sono ripetuti negli anni successivi. Le stragi di Capaci e di via D’Amelio (il “seguire i soldi per trovare la Mafia” di Falcone, docet), Tangentopoli, i crack Cirio e Parmalat, la discutibile gestione di Monte dei Paschi di Siena (la banca più antica del mondo), la fine delle banche venete e della Popolare di Lodi e chi più ne ha, più ne metta, ne sono la testimonianza.
É stato uno dei pochi a pagare con la vita per le colpe di un sistema corrotto che ha toccato gli interessi di Mafia, P2, Massoneria, Banda della Magliana, servizi segreti, ambienti vaticani, terroristi internazionali, partiti e politici (italiani e non). E’ finito “suicidato” sul Tamigi il 18 giugno 2022, ma la struttura deviata di cui faceva parte ha perdurato.
Cosa rimane allora?
Forse rimane solo la storia di un uomo strappato ai suoi affetti e alla giustizia terrena troppo in fretta, venduto da faccendieri ed ex-amici, che se lo sono passato di mano in mano come una borsa di scarso valore. Avrebbe meritato una fine diversa, giudicato da tribunali insieme ad amici, collaboratori e mandanti. Se ritenuto colpevole avrebbe scontato la giusta pena e, poi, terminata la stessa, sarebbe potuto tornare libero e riabilitato. Se ritenuto innocente, invece, avrebbe potuto continuare a lavorare. Ma questo a Roberto non é stato concesso.
Matteo Peretti