Il capitello di San Dionigi e la Vergine col Bambino, in occulto e preoccupante
degrado – Potrebbe funzionare l’auspicabile “azione di salvaguardia congiunta”
tra Circoscrizione 2^, Soprintendenza, parrocchia di Parona ed Ufficio beni
culturali ecclesiastici della Diocesi?
Parona di Valpolicella (Verona) – Scrigni di bellezze artistiche dimenticate, in… disarmo, accantonate da chi, per deontologia professionale, dovrebbe coccolarle al massimo. Invece, il degrado sta intaccando e nascondendo un paio di interessanti opere, l’una dirimpetto a via Preare e l’altra poco distante, sulla strada dei Monti che s’inerpica costeggiando Villa “Erbisti” (o “San Dionigi”, dal nome del colle che l’accoglie), dotata d’un vasto parco. Il complesso risale al 1834 ed ha caratteristiche neoclassiche, con una chiesa romanica dedicata, appunto, a San Dionigi, dai trascorsi particolarmente datati, con origini nell’alto medioevo (probabilmente al IX secolo), dal rifacimento nel Trecento e parzialmente modificata nel 1615. Al suo interno si conservano l’affresco d’una Madonna in trono con santi (del XIV secolo) ed otto lunette con episodi della vita di San Dionigi e figure monocrome di santi ascritte a Paolo e Jacopo Ligozzi.
Negli immediati paraggi, esposto al traffico ed alle intemperie ed affidandosi solo alla buona sorte (in caso di collisioni con automezzi sbandati), sopravvive all’angolo tra via Preare e strada dei Monti il capitello detto di San Dionigi, nascosto alla vista da sempreverdi, rampicanti e piante grasse lasciati crescere ed avviluppare secondo lassiste procedure d’apparente “protezione” del manufatto in una sorta di guscio vegetale.
A fornire utili indicazioni sul passato di questa nicchia d’antico è il pregevole volume di Rinaldo Dal Negro “Parona e i suoi capitelli” (edizione fuori commercio, Tipografia “Grafical” snc, Marano di Valpolicella, aprile 1997) che costituisce un “viaggio con navigatore” tra edicole votive (e non solo) nello scampolo di propaggini collinari.
Riguardo alla struttura sacra con affreschi, Dal Negro scrive che è “di notevoli dimensioni (metri 3,10 di altezza e 2,90 di larghezza) costruita in pietrame e cotto e composta di tre scomparti. Considerate le caratteristiche costruttive, gli affreschi contenuti e l’analogia con manufatti simili, questo capitello è conducibile all’inizio del Cinquecento”. La sua edificazione od i dipinti murali che presenta sono, con buona probabilità, attinenti ai frati benedettini del Monastero di San Zeno, possessori già dal 1187 di quanto attorno, inclusa la chiesetta di San Dionigi ed il modesto convento accanto, collocati sul colle omonimo. La voce popolare tramandata, a sua volta, asserisce che il capitello costituirebbe un ex voto di lavoratori in qualche miniera o cava della zona, scampati “per grazia divina” ad una frana.
“Dal 1773, data di soppressione del Monastero di San Zeno – continua Dal Negro – l’intera proprietà passò ai conti Erbisti ai quali subentrarono, all’inizio del Novecento, i Cuzzeri. Questi offersero il capitello al Museo cittadino, ma non se ne fece nulla per la difficoltà del suo spostamento e perché non fu trovato un posto adatto per la sua collocazione. Successivamente altre facoltose famiglie si alternarono nella proprietà e tennero in cura anche il capitello mentre, da qualche tempo (poco prima dell’aprile 1997, data d’uscita del libro, n.d.t.), è lasciato in assoluto abbandono. Ciò, unitamente alla inevitabile usura dei tempi, ha fatto sì che le condizioni degli intonaci e dei dipinti a fresco sono talmente deteriorati che la qualità delle immagini non consente alcun esame e rende quindi impossibile una precisa e definitiva attribuzione dei dipinti”.
La comparazione tra una foto in bianco e nero fatta dal sottoscritto circa 35 anni fa, quelle contenute nell’opera di Rinaldo Dal Negro (in copertina ed a pag. 53, certo antecedenti di poco al mese di pubblicazione) e le altre che integrano il presente articolo (scattate il 12 novembre 2021) dimostrano il costante declino di capitello ed affreschi (su cui appaiono degli sfregi) in una colposa trascuratezza, destinata ad aggravarsi senza il “pronto soccorso” di organismi pubblici (preposti per dogma alla salvaguardia) o privati (sensibili ad “investire” nel restauro). Per la cronaca, in ogni caso, la circoscrizione del Comune di Verona competente è la 2^ (che copre Borgo Trento, Avesa, Valdonega, Ponte Crencano e, infatti, Parona). Una degna e razionale potatura dell’esuberante vegetazione ed un eventuale posizionamento di faretti per evidenziarlo pure nelle ore notturne, sarebbero il minimo dovuto per restituire dignità e visibilità al nucleo, proteso tuttora sull’incurante traffico non consapevole dell’apprezzabile opportunità…
Prosegue l’estensore della ricerca: “Comunque S. Dionigi è raffigurato, in veste episcopale e con in mano la testa mozzata, nella nicchia di sinistra. Nella nicchia del lato opposto è visibile un Santo, forse S. Antonio abate o S. Tommaso. Al centro una Madonna col Bambino in piedi sulle sue ginocchia e per la quale, sul basamento sottostante, c’è la scritta Tota pulchra es Maria (Sei tutta bellissima Maria, n.d.t.). Sul timpano, infine, appare un Padre Eterno con le braccia aperte in segno di benedizione”.
La datazione degli affreschi non è condivisa o manifesta. “La versione prevalente – taglia corto l’autore del volume – è che siano di Francesco Caroto (1470-1546, secondo Dal Negro, Giovan Francesco Caroto, Verona, 1480 circa – Verona, 1555, a detta di altre fonti, n.d.t.) ma c’è anche chi ha prospettato l’ipotesi che siano di Francesco Torbido (1482-1562, oppure Francesco Torbido, detto il Moro, Venezia, 1482/83 – Verona, 1561/62, n.d.t.) o di Battista del Moro (1514 – 1543, Battista d’Angolo, detto del Moro, Verona, 1514/circa 1515 – Verona, 1573/74, genero di Francesco Torbido, detto il Moro, di cui sposò la figlia Margherita e dal quale prese il soprannome, n.d.t.), tutti noti artisti veronesi soliti a non firmare le loro opere. Circa le date 1569 e A.D. 5 zugno 1603 che il Simeoni e la Repetto asseriscono a suo tempo visibili in calce agli affreschi, ora non c’è alcuna traccia”.
E se il capitello di San Dionigi langue nel lento degrado, accentuato dal semi occultamento dei suoi particolari, la vicina edicola della Vergine col Bambino, al lato sinistro in salita di strada dei Monti, oltre all’incuria lampante e congenita, se la deve vedere anche con lo sconsiderato scarico di rifiuti nel tratto erboso e scosceso accanto. Rinaldo Dal Negro s’è soffermato a descrivere sinteticamente il reperto, collocato nell’angolo sud-ovest del muro di cinta della menzionata Villa “Erbisti”: “Sta nella parte superiore del muro, è alto circa due metri ed è costruito esclusivamente in pietra locale. Nella nicchia ad arco pieno c’è una specie di guscio appuntito nel quale è ospitata una scultura raffigurante la Vergine col Bambino seduto sulle ginocchia. Trattasi di un altorilievo di piccola dimensione e di poco pregio sotto l’aspetto artistico, e comunque assai significativo sotto l’aspetto devozionale”.
L’iscrizione latina sottostante è ormai scivolata in un grave deterioramento, rendendo estremamente difficile la lettura della scritta consumata dal tempo e dalla noncuranza. Per la decifrazione della lapide viene ancora in soccorso Dal Negro: “ANTONIVS ET PAVLVS FF HERBISTI TE VIRGO …AE COELIQ POTENS PRECANTVR VNANIMES …E SVOSQ ET SVA OMNIA IN TVAM FIDEM …HAS TVOQ PRAESIDIO TVTERIS ADPRECANTE …O IPSIS ET S DIONYSIO LOCI PATRONO ANNO ƆIC IƆCCC XL”. Traduzione approssimativa: “Antonio e Paolo Erbisti costruirono per te Vergine Maria e potente (Regina) del cielo pregano unanimi per sé e i suoi e tutte le (loro) cose (che) mettono sotto la tua protezione (perché tu li) protegga e pregano per loro stessi e con il patrono del luogo S. Dionigi Anno 1840)”. Non c’è quindi dubbio alcuno che il capitello risale alla metà Ottocento e che fu eretto per volontà degli Erbisti che, fin dal 1790, erano stati nominati conti di San Dionigi, onde magnificarne la loro pietà e religiosità”.
Suggestiva e semplice, l’effige della Madonna col Bambino che le si stringe teneramente e l’epigrafe in basso brontolano per l’indifferenza altrui e per le immondizie che zotici riversano nei pressi, quasi in dispregio.
L’urgenza di salvaguardia di questo cammeo e del limitrofo capitello di San Dionigi, in funzione pure di turismo culturale alternativo, incombe. Che banali e relativamente dispendiose azioni di restauro e di valorizzazione siano possibili senza scuse d’occasione, magari facendo andar d’accordo circoscrizione e Soprintendenza (coinvolte per obbligo territoriale ed istituzionale), la parrocchia di Parona (dei Santi Filippo e Giacomo) e l’Ufficio beni culturali ecclesiastici della Diocesi scaligera?
Claudio Beccalossi