Pare sia diventata una regola nel mondo del lavoro: per le donne è vietato invecchiare. Ce lo raccontano loro: Roma Torre (due premi Emmy), Amanda Farinacci, Vivian Lee, Jeanine Ramirez e Kristen Shaughnessy, tutte conduttrici televisive americane, di età compresa tra i 41 e o 62 anni, che hanno denunciato la rete televisiva NY1 per averle discriminate sia dal punto di vista dello stipendio, sia dal punto di vista degli spazi concessi in onda, emarginate rispetto a colleghe più giovani e con meno esperienza o a
colleghi uomini di pari anzianità. Una battaglia legale durata 18 mesi, al termine della quale le conduttrici hanno accettato di dimettersi,
dopo aver raggiunto un accordo economico con l’emittente televisiva: il patteggiamento, giunto “per il miglior interesse di tutti”, ha innalzato un vero polverone.
L’emittente televisiva è stata additata come capace di toccare il gradino più basso nel rispetto dell’essere femminile, fautrice di quella discriminazione che vuole la donna sempre giovane per restare sulla cresta
dell’onda. L’Age shaming (o ageismo, termine coniato nel 1969 da Robert Neil Butler per indicare, appunto, la discrimination against seniors), pur essendo vietata dalle legislazioni moderne – in casa nostra dall’Art. 3
della Costituzione che vieta qualsiasi forma di discriminazione basata sulle condizioni personali, in Europa dalla Carta dei diritti fondamentali che vieta espressamente qualsiasi forma di discriminazione basata sull’età – è, in realtà, comunemente praticata sia a livello sociale, sia (soprattutto) in ambito professionale. Quanto racconta la vicenda delle cinque conduttrici americane è la storia di molte; basti pensare che, a oggi, nel 2021, avere più di 45 anni nelle imprese italiane rappresenta uno stigma: arresto dello sviluppo professionale, difficoltà a rientrare nel mondo del lavoro (anche dopo una gravidanza), totale disinvestimento sull’ingranaggio e sulla motivazioni delle lavoratrici senior, in quanto considerate più sagge,
ma più lente e poco efficienti.
Mentre le donne subiscono lo stigma del decadimento fisico che le rende socialmente meno belle e desiderabili e professionalmente meno pronte per passaggi di ruolo e di responsabilità, per gli uomini vige la convinzione che con l’età possano acquisire fascino e interesse. Tali stereotipi sono così radicati nella nostra mentalità che a tutti inconsapevolmente – compresi quanti leggendo si considerano esenti da questi comportamenti – sarà capitato di conversare dicendo “è ancora una bella donna” o “sembra più giovane”: ebbene, espressioni come queste segnalano come la norma
sociale di riferimento per la reputazione e la considerazione sociale e professionale della donna sia “la bellezza della gioventù”.
Un altro esempio pratico di ageism? I dati dell’American Society of Aging (ASA) dimostrano che per le donne over 65 non vi sia alcuna possibilità di assunzione rispetto ad un collega uomo anche di un’età più avanzata: è sufficiente dare un occhio a quanti uomini si trovano ai vertici di aziende o, anche, di nazioni con un’età ben sopra ai 60… vi vengono in mente altrettanti esempi al femminile?
L’ageism, il più delle volte, va ad aggiungersi al sessismo, quindi. Al di là della palese ingiustizia, questo comportamento non ha senso neppure sotto l’aspetto economico: la forza lavoro delle seniors comporterebbe un aumento del PIL di ogni Paese, tanto che, secondo la ricerca “Golden Index Age” condotta da PWC, aumentare i tassi di occupazione delle over 50 sino ai livelli della Nuova Zelanda, comporterebbe un guadagno per il PIL a lungo in termine di 3,5 trilioni di dollari. E non solo. Visto e considerato che gli attuali 50/60enni saranno gli ultimi a poter (aspettare) e godere della
pensione, ha senso di esistere l’ageism sul posto di lavoro? Quando arriveremo al punto in cui le donne, al pari degli uomini, dovranno lavorare molto più a lungo di ora, con una discriminazione così potente, come faranno?
L’ageism è il motivo principale per cui si è creato il circolo vizioso nel quale da un lato la donna lotta contro l’invecchiamento fisico attraverso la manipolazione del proprio corpo rendendosi psicologicamente fragile,
dall’altro lo stigma professionale basato sull’estetica che le viene imposto non le permette di mantenere un atteggiamento di serena accettazione nei confronti di quei cambiamenti fisici che la vecchiaia porta con sé.
Da dove deriva tutto ciò? Nel 2009 la rivista Time annovera tra le 10 idee destinate a cambiare il mondo il concetto di “amortalità” – l’atteggiamento di chi ignora la vecchiaia – che rappresenta quell’ostinato desiderio di non invecchiare dei baby boomers (i figli del boom economico) che, nati tra il 1946 e il 1964, persistono nel vivere un’adolescenza permanente, sfruttando all’inverosimile la più avanzata tecnologia al servizio della chirurgia
estetica e della cosmesi e un abbigliamento sfrontatamente giovanile.
Vivono, costante, il bisogno di mantenere uno stile di vita che sia uguale per tutta la vita perché, a causa dell’ageism, non si possono permettere di essere incasellati negli stereotipi che il numero passato di primavere imporrebbe. L’amortalità comporta, quindi, il dilagare di un’età uniforme; tutte le generazioni sono indifferentemente abbracciate da un unico modo di vivere, che unisce le differenti fasi della vita, delle quali evidentemente si
è perso ogni senso: è stato smarrito il senso del passaggio da una stagione all’altra della propria vita, del rapporto con il proprio tempo, dell’esistenza da vivere profondamente. La generazione dei baby boomers resta in superficie, consumandosi nell’illusione dell’eterna giovinezza. Sono mutati gli equilibri sociali. Pare di essere in una società che rifiuta categoricamente il cerchio del tempo, il cerchio della vita: si vive nel tentativo sistematico di allontanare il concetto di vecchiaia, rifiutando che esista una stagione per ogni cosa e, anzi, riconoscendo nell’autunno della vita esclusivamente l’aspetto negativo e degradante del decadimento fisico, nell’illusione di essere liberi di scegliere se accettarlo o meno.
Si vive immobili, in una sorta di ibridazione sociale che porta i seniors a voler cancellare i segni della vecchiaia, tentando di allontanarla con l’inganno, spaventati dalla finitezza e dalla fragilità dell’essere
umano. Il c.d. giovanilismo trionfante, percepito come una libera scelta, è in realtà una schiavitù alla quale bisogna uniformarsi per non essere emarginati. Possiamo dire che l’apparire ha rubato la scena all’essere? Che l’homo sapiens è divenuto homo videns? Stiamo vivendo attraverso lo sguardo degli altri, di una società che ci vuole uniformi e conformi all’idea di una giovinezza eterna, che ci fa vivere con disagio il distacco fra il corpo reale (in continua trasformazione) e il corpo ideale, che non subisce l’azione del tempo. L’immagine del corpo ha assunto un ruolo centrale nella costruzione e nel mantenimento dell’autostima di ciascuno, spodestando la parola. Ma ciò a cui dovremmo tornare (o arrivare per la prima volta), ciò che dovremmo inculcare ai baby dei giorni nostri è il concetto che è la testa e non il corpo a fare la differenza: è la passione con cui si guarda al futuro che permette di avere sempre più progetti che ricordi; è il dovere etico e morale che abbiamo verso noi stessi di fare dell’invecchiamento una stagione attiva, nella quale ancora si può creare, progettare e vivere.
Chiara Aldegheri
Dottoressa in giurisprudenza