Alle ore 22:39 del 9 ottobre 1963, una frana di 2 km e dai 270 milioni e passa di m³ di roccia e terra precipitarono dal monte Toc (abbreviazione in dialetto friulano di “patoc”, cioè “marcio”, “fradicio”, termini che avrebbero dovuto essere ammonitori) nel bacino artificiale sottostante racchiuso dalla diga del Vajont, elaborata per la produzione di energia elettrica dall’ingegner Carlo Semenza ancora nel 1926 e costruita tra il 1957 ed il 1960 nel comune di Erto e Casso, in provincia di Pordenone, lungo il corso del torrente Vajont nella vallata omonima, al confine tra Friuli Venezia Giulia e Veneto.
Il “tuffo” dell’enorme massa nell’incavo contenente, in quelle circostanze, circa 115 milioni di m³ d’acqua, causò un’onda di piena tricuspide (cioè, terminante con tre cuspidi o punte o vertici) che oltrepassò di 200-250 m il bordo della diga (non crollata) e che parzialmente risalì il versante opposto cancellando case, cose e persone stanziate nei pressi del bacino. Un’altra direttrice della massa (di 50 milioni di m³) superò con 25-30 milioni di m³ d’acqua e detriti killer la diga, lasciandola illesa, per poi riversarsi nella sottostante alta valle del Piave ed annientando pressoché completamente Longarone ed altri paesi. Una terza direttrice ripiombò sulla stessa frana originaria, formando addirittura un laghetto, quello di Massalezza.
L’immane tragedia provocò in totale (secondo cifre fluttuanti, in considerazione dell’impossibilità oggettiva di stabilire numeri esatti) 1.910 (o 1917) morti di cui 1.450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 ad Erto e Casso ed i rimanenti di altre località. Tuttavia, i cadaveri che i soccorritori riuscirono a recuperare furono solo 1.500. Tra bambini e ragazzi i deceduti minorenni furono 487. La più piccola vittima della tragedia fu Claudio Martinelli di Erto e Casso, nato il 18 settembre 1963 e di soli 21 giorni mentre la più anziana fu Amalia Pancot, nata il 26 gennaio 1870 (quindi, di 93 anni) di Conegliano (Treviso).
64 dei deceduti figuravano tra i dipendenti dell’Enel e delle imprese “Monti” e “Consonda Icos”, lavoratori per la finitura della diga e delle attività di servizio.
Sparirono dalla carta geografica (oggi si direbbe da Google Maps) le borgate dislocate attorno al lago del Vajont (Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino e l’area sottostante l’abitato di Erto). Nella valle del Piave vennero appiattiti i paesi di Longarone, Pirago, Faè, Villanova, Rivalta mentre sopravvissero, pur con gravi conseguenze, Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Dogna e Provagna. Subirono rovine pure i comuni di Soverzene, Ponte nelle Alpi, Borgo Piave (ai piedi di Belluno), la frazione di Caorera (comune di Quero Vas) dove l’ingrossato fiume Piave provocò un allagamento che toccò perfino il presbiterio della chiesa.
Il tragico avvenimento ebbe varie cause ed in diversa cronologia, quale l’ultimo innalzamento delle acque del lago artificiale, in superamento della quota di sicurezza di 700 metri, decisa ufficialmente per il collaudo (riempiendo l’invaso e col conseguente svuotamento parziale per toccare la quota di regime, con diversità di pressioni attuate dall’acqua sull’incerto versante montano interessato che costituì l’innesco drammatico della frana) ma con il supposto obiettivo, parallelo o meno, di far cadere nel bacino e sotto controllo lo smottamento in minaccia. A questi troppo ottimistici intenti s’aggiunsero forti precipitazioni piovose e sottovalutazioni dei rischi dati dal dinamismo del vetusto movimento franoso (paleofrana), naturale o provocato da inopportune manovre, dal versante settentrionale del monte Toc che s’erge tra le province di Belluno e Pordenone.
In ogni caso, i parametri di controllo adottati per monitorare modalità e sviluppi dell’azione di dissesto idrogeologico incapparono in sbagli clamorosi, fondandosi su una sottostimata velocità di discesa dello sfaldamento nel lago artificiale, velocità avventatamente considerata un terzo rispetto a quella reale. I modelli usati per prevedere le modalità dell’evento si rivelarono comunque errati, in quanto si basarono su una velocità di scivolamento e sull’unicità della massa franosa nell’invaso fortemente sottostimate, pari ad un terzo di quella effettiva. Cantonate imperdonabili, prese troppo sottogamba per meschini interessi.
Pare che la grandiosa opera di realizzazione della diga fosse iniziata senza l’autorizzazione ministeriale (sic), dato che il progetto ne ottenne l’integrale solo il 17 luglio 1957. Doveva fungere da approvvigionamento idrico di regolazione stagionale per le acque del fiume Piave e dei torrenti Maè e Boite che prima alimentavano direttamente il bacino della val Gallina, “motore” della centrale idroelettrica di Soverzene. Le acque tolte ai corsi venivano deviate dalla diga di Pieve di Cadore (per quanto riguarda il Piave), dall’altra di Pontesei (per il Maè) e dalla terza di valle di Cadore (per il Boite) al bacino del Vajont, sfruttando chilometri di tubazioni in cemento armato vibrato e ponti-tubo.
Successivamente, il piano di lavoro trovò variazioni, con la diga proiettata all’altezza di 261,60 m (60 metri in più rispetto all’idea primaria), con un invaso utile di 150 milioni di m³ invece dei 58 previsti in precedenza.
La riprogettazione della diga ebbe i seguenti connotati:
- manufatto ad arco a doppia curvatura in calcestruzzo;
- altezza: 261,60 m;
- quota alla base: 463,90 m s. l. m.;
- quota del piano stradale: 725,5 m s. l. m.;
- larghezza alla base: 22,11 m;
- larghezza in sommità: 2,92 m;
- lunghezza del coronamento: 190,15 m;
- livello di minimo invaso: 625 m s. l. m.;
- livello di massimo invaso: 722,5 m s. l. m.;
- livello di massima piena: 723,5 m s. l. m.;
- capacità utile d’invaso: 150 milioni di m³;
- capacità d’invaso complessiva: 168,715 milioni di m³;
- inizio “ufficiale” dei lavori di scavo: estate 1957;
- fine dei lavori di fondazione: agosto 1958;
- inizio dei getti di calcestruzzo: agosto 1958;
- termine dei getti e dei lavori sulla diga: settembre 1960;
- inaugurazione: 17 ottobre 1961;
- impresa esecutrice dei lavori di getto del calcestruzzo: “Giuseppe Torno & C” S.p.A. Milano;
- progetto architettonico della cabina comandi centralizzati: arch. Cesare Pea;
- imprese collaboratrici: “Consonda-Icos” di Milano (sondaggi, iniezioni calcestruzzo, consolidamento pareti), “Monti” d’Auronzo di Cadore (scavi di gallerie, placcaggio delle fiancate e scavo della galleria di by-pass), “De Prà” di Belluno (trasporto materiale e preparazione degli inerti), “Sacaim” di Venezia (ponte stradale sul torrente Vajont), “Caldart” di Belluno (gallerie stradali), “Zadra” di Belluno (scavo della galleria di by-pass);
- morti sul lavoro durante la costruzione: 6 persone.
Il governo italiano sostenne il 45% dei costi complessivi della diga. Va ricordato che la particolare costruzione costituì, al momento storico, la diga in calcestruzzo a doppio arco più alta al mondo con i suoi poderosi 261,60 m d’altezza. Un record lusinghiero ma che non ripaga tanta morte e distruzione, dolori e ricordi che il tempo, spesso foriero se non complice d’oblio, non è tuttavia riuscito a lenire… Il lungo iter giudiziario alla ricerca di quanti si resero colpevoli di gravi negligenze, sottovalutazioni od errori, andò avanti fino al 2000, con un accordo per la suddivisione dei risarcimenti dei danni tra Enel, Montedison e Stato italiano con percentuali del 33,3% ciascuno. Cifre in lire a vari zeri che furono niente ed inutili rispetto all’ecatombe dal dolore infinito…
Servizio e foto originali (maggio 1984) di Claudio Beccalossi