Il copione si ripete.
Ad ogni ingrossamento della portata d’acqua del fiume Adige scendono da nord, trascinati dalla corrente, tronchi e rami anche d’una certa consistenza che, poi, vanno ad accumularsi alle pile dei ponti situati lungo il percorso verso la foce.
L’accatastarsi di legname alla deriva su arcate di sostegno nel tratto scaligero riguarda, in modo particolare, il ponte Mariano Rumor (in precedenza noto come ponte del Pestrino o di San Pancrazio, ristrutturato completamente tra il 2004 ed il 2005, intitolato nel 2011 al politico vicentino) ed il ponte Giuseppe Garibaldi (che collega la via omonima ed i lungadige Panvinio e Riva Battello con viale Nino Bixio e gli altri due lungadige opposti Giacomo Matteotti e San Giorgio).
La situazione risulta più massiccia alla base d’uno dei pilastri del secondo, dove si sono bloccati e stretti l’un l’altro piccoli e grossi tronchi che sembrano sfidare l’urto della forte massa d’acqua.
Il ponte Garibaldi ha un passato inquieto.
Costituisce il rifacimento ex novo (riaperto al transito il 10 novembre 1947) del precedente, inaugurato il 21 aprile 1935 e fatto saltare giusto dieci anni dopo, assieme agli altri sull’Adige, il 25 aprile 1945, dai nazisti in ripiego a nord e, a guerra finita, poi demolito del tutto per far posto al nuovo, con progetto curato dall’ingegner Danuso.
Quello distrutto era a tre campate in cemento armato su pile di pietra, eseguito dall’impresa dell’ingegner Forte. Per darne una valenza anche artistica vi vennero posizionate quattro statue in pietra tenera (o tufo) realizzate dallo scultore Ruperto Banterle (nato a Milano da genitori veronesi il 19 settembre 1889 e deceduto per un infarto a Gombion di Caldiero il 20 luglio 1968).
Le opere erano ispirate alla biografia dell’eroe dei due mondi: rappresentavano il Condottiero (dal braccio puntato), il Nocchiero (dei Mille) al timone, la Madre (il riferimento era ad Anita) col bambino addormentato sul seno e l’Agricoltura (dal covone al braccio). Per la posizione adagiata delle statue il ponte venne soprannominato dai veronesi “dei strachi” (“degli stanchi”).
A causa della fragilità del materiale tufaceo, i manufatti vennero riscolpiti in pietra nel 1939 per poi finire irrimediabilmente danneggiati dalle cariche esplosive piazzate dai soldati tedeschi prima di lasciare Verona.
Servizio, foto e video di
Claudio Beccalossi
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15.02.2022
5.5.2022