Una rivelazione esclusiva sulla tragica morte del parroco di Giazza 77 anni fa – La testimonianza di Ruggero Rossi, intervistato nel 1991 – Scorse il prete nella sede del Comando SS ad Ala, nel Trentino, assieme ad un soldato definito “disertore della polizia trentina”
Questa rievocazione di un’importante ed inedita testimonianza rimasta senza seguito è, da parte mia, l’atto dovuto con deprecabile ritardo a chi, a suo tempo, mi contattò per un appuntamento nel quale, poi, mi rivelò retroscena nuovi ed inquietanti su quello che, tuttora, è formalmente considerato il martirio di don Domenico Mercante (parroco di Giazza, uno degli ultimi baluardi della tradizione e dell’idioma cimbri nell’alta val d’Illasi, nella Lessinia veronese) e dell’SS-Rottenführer (caporalmaggiore) Leonardo Dallasega, trucidati da nazisti in ritirata al bivio di Ceré, a San Martino d’Ala, nel Trentino, il 27 aprile 1945.



Nella foto soprastante: la tomba di don Domenico Mercante nel cimitero di Giazza (Verona).
Le esecuzioni del prete, che avrebbe voluto evitare spargimenti di sangue tra tedeschi in rotta e partigiani con coinvolgimenti della popolazione e del trentino inquadrato nelle Waffen SS, che si sarebbe rifiutato di far parte del plotone d’esecuzione che doveva sopprimere il sacerdote, è ampiamente trattata dalla storiografia ufficiale. Ma non è conosciuto, invece, il mio cosiddetto “atto dovuto”: gli appunti messi insieme in quella conversazione del 1991 con Ruggero Rossi (questo il nome della persona che mi telefonò sapendo che m’interessavo a livello giornalistico anche di ricostruzioni storiche il più possibile inedite) sono rimasti inesorabilmente sepolti in una vecchia ed oggi consunta agenda zeppa di note su vari altri argomenti, allora d’attualità veronese.
Il rendez-vous con Rossi ebbe luogo giovedì 31 ottobre 1991, alle ore 11, presso la Trattoria “Galeazzi”, in vicolo Disciplina, nel centro di Verona. Come promemoria, annotai quale scopo dell’incontro “il giallo sulla morte di don Mercante: ucciso dai nazisti o da un bombardamento alleato alla stazione di Ala?” che riassumeva quanto m’era stato anticipato al telefono dallo stesso Rossi. Pensionato, quest’ultimo, allora di 72 anni e che è poi deceduto il 18 agosto 1993, purtroppo senza che avessimo nuove opportunità di dialogo, aggiuntivo od esplicativo, su ciò che m’aveva riferito.
A proposito di quella lunga conversazione del 31 ottobre 1991, ricordo l’odore stagnante di vino e di fumo nella trattoria, la voglia di raccontare del mio interlocutore, l’abbondanza dei fatti espressi di getto e che faticai a riportare sull’agenda.
Rossi iniziò il suo racconto precisando che, prima del pensionamento, aveva lavorato come impiegato tecnico di prima categoria. Era nato nelle case popolari della borgata di Porto San Pancrazio. Mario, il padre, era un ferroviere (milite ferroviario) mentre la madre Ada Alpestri aveva fatto da madrina al labaro della 40^ Legione della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. I genitori di Ruggero si sposarono nel 1918 ad Ancona. Sua madre, infatti, era anconetana ed aveva assistito alle note “giornate rosse d’Ancona”. Il padre tornava, invece, dalla Prima guerra mondiale.
Il memoriale di guerra (la “sua” guerra) di Rossi contò uno dei principali sussulti con l’arrivo a Verona il 6 settembre 1943, dopo il ripiegamento verso il continente dallo Stretto di Messina con le truppe dell’Asse incalzate dagli Alleati.
«L’8 settembre mio padre, milite ferroviario, mi disse di nascondermi – rivangò Ruggero – perché i nazisti cercavano tutti gli uomini. Per trovarmi una sistemazione sicura, mio padre scrisse all’ingegner Aurelio Aureli che era titolare dell’Organizzazione Lavori Specializzati (o Specialistici), in via Buozzi 2, a Roma. L’ingegnere rispose dicendo che avrei dovuto trovarmi ad un appuntamento a Borgo San Lorenzo, a Firenze, con un suo incaricato. Cominciai a lavorare all’OLS per i tedeschi con sede di lavoro a Dicomano (Firenze). Prima ebbi l’incarico di rilevare lo stato d’avanzamento delle trincee e, poi, mi passarono in un ufficio. Intanto, durante il bombardamento aereo alleato su Verona del 28 gennaio 1944, venne distrutta la casa dei miei genitori e mia sorella Reginalda, allora di 8 anni, riuscì miracolosamente a salvarsi».
«Nel corso del mio lavoro d’ufficio, verso marzo od aprile del ’44, andai in contrasto per vari motivi con il direttore amministrativo che riferì della questione al comandante tedesco a cui, mentre tirava fuori la pistola per minacciarmi, diedi un pugno. Poi, scappai fino a Pontassieve, presi un treno per Firenze e da quella città mi diressi in provincia di Piacenza evitando Verona perché, supposi, m’avrebbero cercato a casa. A Piacenza avevo la fidanzata che mi diede dei soldi grazie ai quali andai verso Pizzighettone, in provincia di Cremona, dov’ero stato in precedenza ed in cui abitava la vedova d’un mio commilitone morto in Sicilia. La signora parlò con il comandante delle carceri militari che mi procurò un lavoro là dentro per circa un mese. Rimasi fino a quando un maresciallo dei carabinieri m’invitò ad andarmene perché aveva ricevuto l’ordine di catturare i renitenti alla leva».
«Non mi rimase che scappare ancora, stavolta verso Verona e la casa in corso Vittorio Emanuele (l’odierno corso Porta Nuova) dove aveva trovato alloggio la mia famiglia. Rammento che dal balcone dell’abitazione dei miei familiari si poteva passare ad altri appartamenti per fuggire in caso di pericolo. E che, per guadagnare dei soldi per mantenermi, prendevo un carretto tirato a mano per poi andare anche in mezzo ai tedeschi di stanza per far loro qualche lavoro. In quella che oggi si chiama via Città di Nîmes c’era il deposito bagagli delle Ferrovie. Da lì portavo i colli, anche dei militari nazisti, in stazione e per questo venivo pagato. Un dipendente dell’OLS che conosceva il vecchio indirizzo dei miei riuscì a risalire al nuovo e venne a casa per offrirmi un lavoro ad Ala, nel Trentino. Io ero addetto alle misurazioni, ai lavori di fortificazione dal monte Baldo ai Lessini».
«Nel dicembre 1944 il geometra Tomio di Rovereto, un dipendente della ditta per cui lavoravo, venne prelevato dai carabinieri con l’accusa di spionaggio. Avevano beccato alla frontiera con la Svizzera, più precisamente, un incaricato di Tomio che avrebbe dovuto portare i piani di difesa della zona oltre confine. I carabinieri ed i tedeschi indagarono sull’episodio anche nel mio ambito lavorativo, dato che quelle carte erano in possesso pure del geometra Martinelli di Avio e mio. I tedeschi diffidavano di me perché non scendevo mai in paese per paura dei bombardamenti aerei. Tomio, in seguito, fu portato in carcere a Trento e venne sottoposto al giudizio d’un Tribunale speciale per poi uscire con la Liberazione. Incontrai pure i partigiani che venivano a controllare le fortificazioni. Ricordo un certo Paolo Paganini della Brigata “Avesani”. Le persone, in genere, mi conoscevano come “figlio di fascista”».
«Un giorno mi scontrai con una tal Maria – raccontò Rossi sorridendo – che aveva l’abitudine di proferire “porco d’un italiano” come intercalare. Le dissi che se avesse ripetuto quell’ingiuria le avrei rifilato un sonoro ceffone e lei, per tutta risposta, si recò dal comandante Schmidt originario di Monaco di Baviera delle SA (Sturmabteilung, Reparti d’assalto, “camicie brune”, n.d.a.), a riferire l’episodio. Sulla base di altri suoi sospetti, Schmidt, assieme ad un’altra SA, venne a prendermi per portarmi al Comando SS (Schutzstaffeln, Squadre di protezione, n.d.a.) d’Ala nel palazzo “Malfatti”, sede del Cittadino asilo d’infanzia. All’interno trovai altri 119 prigionieri, tutti italiani meno 3, un filippino e due russi. La maggior parte degli italiani, tra cui vari comunisti dei GAP (Gruppi d’azione patriottica), proveniva dalle carceri di Milano. Il compito assegnato a tutta quest’umanità rinchiusa era quello d’andare a bonificare il terreno dalle bombe inesplose ed a scavare trincee. Le pietose donne d’Ala, che vanno ancor oggi ringraziate, ci davano del cibo e del tabacco di nascosto, mentre eravamo nelle trincee. Voglio citare, specialmente, la signora Largaioli».


«Il mio lavoro coatto come prigioniero iniziò nel gennaio 1945. – precisò ulteriormente Ruggero Rossi – In un bombardamento aereo, rimase ferito un appartenente alle SS che venne portato per le cure all’ospedale d’Ala. Gli attacchi aerei erano pressoché giornalieri, intenzionati ad interrompere la linea ferroviaria. Il 26 od il 27 aprile del ’45 fu condotto nel cortile dell’asilo del Comando SS don Domenico Mercante assieme ad un soldato nazista che dicevano fosse un disertore della polizia trentina. Le SS, per la maggior parte olandesi, inveivano contro il prete, malridotto e con i segni di percosse. Aveva la veste sporca, strappata, la faccia tumefatta. L’accusavano d’aver detenuto illegalmente una rivoltella».
«Ad una mia richiesta di spiegazioni, un interprete mi rispose che, durante la sua perquisizione, avevano trovato una pistola in una tasca del sacerdote, in violazione all’“Editto Kesserling”. Mi riferirono che, a Giazza, don Mercante s’era rivolto ad un reparto di contraerea “Hermann Göring” che risaliva in fuga la val d’Illasi verso Revolto ed Ala. Ammonì i tedeschi affermando che sarebbero stati liberi di proseguire se avessero deposto le armi. Ed ingigantì le sue minacce informando che, attorno, erano appostati partigiani pronti a far fuoco. I nazisti, invece d’intimorirsi, lo fecero prigioniero, lo perquisirono, gli scoprirono la pistola ed allora decisero di portarselo dietro come ostaggio. Lo presero a calci per tutto il percorso, da Giazza ad Ala».
«Le SS olandesi, dirette da Ala verso Rovereto, lasciarono le consegne a quelli dell’“Hermann Göring”, appena arrivati. Le SS ci chiamarono per farci caricare i bagagli nelle auto. Un militare della contraerea andò dentro un ufficio lasciandoci senza custodia. Ne approfittammo subito e scappammo verso i Ronchi. Assieme a me se la diedero a gambe pure tre dei GAP che dopo non rividi mai più. Poi, siamo risaliti agli Schincheri dove c’erano i Padri Camilliani. Uno di questi, d’origine veronese, ci nascose in un pagliaio dove stavano rintanati anche tre disertori della polizia trentina. Meno male, perché i peggiori nemici degli italiani, allora, erano i sudtirolesi. Il mattino dopo raggiungemmo il passo Revolto e, in seguito, vedemmo venirci incontro dei ragazzi d’Ala intenzionati a chiamare i partigiani perché occupassero il paese».
«E don Mercante? – si domandò e si rispose da solo lo stesso Rossi – Può darsi che qualcuno si sia rifiutato di fucilarlo, forse un appartenente alla polizia trentina ma non una SS. Durante la mia permanenza ad Ala le SS presenti erano quasi tutte olandesi».
«Don Mercante, a parere mio, è stato sicuramente un eroe incosciente ed ingenuo. Probabilmente voleva salvare la stessa vita dei soldati tedeschi in caso d’imboscata da parte dei partigiani. E certo desiderava preservare questi ultimi e la gente del posto, probabili vittime della reazione nazista».
«A Revolto un maestro mi chiese del prete ed io risposi che avevo sentito dire che era stato fucilato. Io non l’avevo visto fare quella fine ma le chiacchiere sulla sua morte già giravano. Di sicuro, comunque, stando a mie valutazioni, furono le SS olandesi ad ucciderlo. Da Revolto mi portarono a Verona su una jeep e potei così riabbracciare i miei che, nel frattempo, s’erano trasferiti ancora, dopo l’ennesimo bombardamento, in via S. Alessio… Solo allora mi resi conto che, per me, finalmente, la guerra era finita…».
La tomba di Ruggero Rossi nel Cimitero monumentale
A distanza di anni dall’intervista originale del 31 ottobre 1991 (qui pubblicata), sono riuscito a rintracciare la tomba di Ruggero Rossi, testimone di parziali ultimi momenti di don Domenico Mercante, parroco di Giazza (dov’era nato il 21 settembre 1899).
Il sepolcro di Rossi si trova nel campo inumazione adulti del Cimitero monumentale, a destra rispetto all’entrata principale (1°ADX-A-C.B., secondo le coordinate “ricerca defunto” del sito di Agec, Servizi cimiteriali). È difficile individuarlo se non si conosce l’esatta ubicazione, soprattutto perché la lapide con le indicazioni è nascosta da un folto sempreverde.
Solo guardando in perpendicolare si possono leggere i succinti dati del defunto: “Rossi Ruggero N. 15 12 1919 M. 18 8 1993”.
“Scoprirla” del tutto casualmente è stato uno strano gioco del destino, mentre cercavo altri amici scomparsi, con storie interessanti da me raccolte a suo tempo, inumati in quell’area. Il caso ha voluto che la mia attenzione venisse attratta dalla siepe ben cresciuta ad “oscurare” l’identità del morto. Non so dare una spiegazione sul “perché” io sia stato “calamitato” da quel loculo senza foto, fatto sta che, girovagando a casaccio tra le file di tumuli scorrendo le tante identità, i miei occhi si sono, per così dire, “fissati” sulla pianta ben potata che “nascondeva” la sintesi di un’esistenza, costringendomi, quasi, a curiosare sul marmo. Sono rimasto comprensibilmente attonito nel leggervi gli estremi di Ruggero Rossi, spettatore impotente di estremi scampoli in vita di don Domenico Mercante…
Servizi e foto di
Claudio Beccalossi